TriBu.City incontra Tobia Ravà: un affascinante viaggio nell’arte tra lettere, numeri e…

L'intervista con l’artista Tobia Ravà, rappresentato in esclusiva in Ungheria da TriBu.City, che ne cura la promozione e la diffusione dell’opera su tutto il territorio nazionale.

Ci racconti, anche sinteticamente, le tappe fondamentali del tuo percorso artistico, dagli esordi nel 1971 fino a oggi?

“Diciamo che il mio percorso è stato variegato e complesso, e parte forse da una storia familiare legata alla letteratura. Mia madre, in particolare, mi ha ‘imbottito’ fin da piccolo di cultura mitteleuropea, anche perché una parte della nostra famiglia proviene proprio dall’Ungheria.
Poi la famiglia di mia madre si trasferì in Germania e da lì, nel 1935, fu costretta a fuggire in Italia. Anche la famiglia di mio padre è di origine ebraica: lui era ingegnere, come praticamente tutti i parenti maschi. I miei due nonni erano entrambi ingegneri – uno edile e l’altro tessile – e anche tutti i miei zii hanno seguito quella strada. Quindi, da un lato, c’era questo forte legame con la matematica, e dall’altro, un’influenza letteraria e culturale, soprattutto ebraica e mitteleuropea.

Durante il liceo scientifico, frequentavo anche la Scuola Internazionale di Grafica a Venezia, dove passavo tre giorni a settimana a studiare e praticare tecniche come la litografia, la serigrafia, la pirografia… praticamente tutte le tecniche di stampa possibili. Ho avuto la fortuna di incontrare insegnanti molto stimolanti, come Riccardo Licata. Ho seguito anche i corsi di calcografia a Urbino con Bruscaglia e Ceci e successivamente, mi sono laureato al DAMS di Bologna, in un periodo particolarmente vivace dal punto di vista accademico: avevo Umberto Eco, Renato Barilli, Omar Calabrese, Flavio Caroli e c’erano Anceschi e molti altri protagonisti della scena culturale italiana.

Il mio lavoro è cambiato spesso nel corso degli anni, partendo da un percorso grafico legato al movimento surrealista, al simbolismo, al gotico veneziano. Abitando a Venezia avevo davvero tanti stimoli.

Poi, negli anni ’90, ho intrapreso un percorso più legato alla lettera, al testo, al numero e alla ghematrià, per arrivare a quello che sto facendo adesso: una ricerca più profonda sull’ebraismo in rapporto alla lingua, in particolare al valore numerico delle lettere e quindi delle parole, e le loro corrispondenze con percorsi e formule matematiche.

Diciamo che lo sviluppo dei miei ultimi lavori è legato a equazioni di concetti, che derivano da un valore numerico o peso, ovvero dalla somma dei valori associati alle lettere che compongono una determinata parola.”

Guardando al futuro, come immagini l’evoluzione della tua pratica artistica nei prossimi anni? Ci sono nuovi linguaggi visivi o tecnologici – come l’intelligenza artificiale o altri strumenti emergenti – che ti incuriosiscono o che stai già iniziando a esplorare?

“Sto lavorando molto sui percorsi visivi, esplorando anche l’elaborazione digitale attraverso l’intelligenza artificiale. Sono delle prove che sto facendo, contemporaneamente alla mia ricerca scultorea, nella quale impiego la tecnica della fusione a cera persa in bronzo, insieme a diversi procedimenti di lucidatura, patinatura e verniciatura – utilizzando materiali come nichel, cromo, nitrato di ferro e smalti. Mi piace elaborare tecniche antiche per poterle correlare ad un percorso legato alle scoperte tecniche della contemporaneità.”

Sei mai stato a Budapest e in generale in Ungheria o hai mai avuto contatti con la scena artistica ungherese?

“Sì, sono stato a Budapest e ho avuto modo di girare a lungo tra le gallerie sia di Buda che di Pest. Conosco la scena artistica ungherese soprattutto attraverso queste esperienze dirette, ma anche grazie agli artisti storici ungheresi che hanno lasciato un segno in vari contesti europei.
Le mie permanenze in città sono sempre state episodiche, spesso legate a ricerche sulla cultura e sulla presenza ebraica a Budapest e in Ungheria, fino ad arrivare alla Shoah.”

Ci sono opere che desideri presentare a Budapest e che ritieni particolarmente significative in questo contesto? Abbiamo notato, ad esempio, alcuni tuoi lavori ispirati alla Mitteleuropa.

“Diciamo che i miei lavori si adattano bene a contesti diversi, perché sono costruiti su un percorso matematico e linguistico, al quale si integrano, di volta in volta, immagini archetipiche o elementi visivi già noti, spesso legati a città storiche, boschi o foreste.
Le opere che attualmente espongo in Italia a Conegliano e a Torino, ad esempio, funzionerebbero molto bene anche in Ungheria.
Mi piacerebbe però creare un collegamento più specifico con il territorio, ad esempio con l’acqua e i boschi: ho lavorato molto sui fiumi, e il Danubio è un elemento centrale del paesaggio ungherese, i boschi, inoltre, fanno da sfondo a molte aree del Paese.”

Se dovessi scegliere un concetto chiave che desideri comunicare al pubblico ungherese attraverso la tua arte, quale sarebbe?

“Il mio lavoro si configura come un’opera aperta. Anche se è costruito su un percorso fondato sulla lingua ebraica, sulla matematica e sulla percezione visiva, lascia sempre spazio a interpretazioni personali.
Ogni osservatore, in base al proprio bagaglio culturale, alla propria sensibilità e alle conoscenze che possiede, può cogliere significati diversi da quelli intesi dall’artista – senza però contraddirli o sminuirli.
In fondo, è proprio l’empatia a rappresentare il trait d’union, il punto di contatto essenziale tra l’opera d’arte e il suo fruitore. Se il lavoro è autentico, sarà in grado di attivare una risonanza interiore che varia da persona a persona, secondo il proprio percorso familiare, culturale e formativo.”

Per presentarti al pubblico ungherese, ci piacerebbe approfondire ciò che rende distintiva la tua ricerca artistica ed in particolare, l’uso ed il significato di numeri e lettere nelle tue opere.

“Le lingue antiche – come il greco, il latino, il farsi, l’arabo, ma soprattutto l’ebraico – sono costruite secondo una logica in cui le lettere corrispondono anche a numeri.
Nel caso dell’alfabeto ebraico, le 22 lettere rappresentano le unità, le decine e poi le centinaia (fino a 400); i valori successivi si ottengono per sommatoria.
Questo significa che un testo può essere letto non solo in senso linguistico, ma anche attraverso un percorso matematico. Da qui nasce la possibilità di elaborare letture alternative e concettualmente più ‘azzardate’, come radici quadrate di concetti, potenze, o equazioni tra parole che condividono lo stesso valore numerico. Sorprendentemente, queste relazioni spesso rivelano un senso profondo e coerente.

Nel mio lavoro ho anche fatto due scoperte casuali ma significative in ambito matematico: una riguarda una lettura della sequenza di Fibonacci in forma ristretta, dove ogni numero può essere ricondotto alla somma delle sue cifre; l’altra è legata a una mia osservazione sui numeri primi.

Queste intuizioni hanno aperto nuovi sviluppi nella mia produzione artistica, che ora integra anche queste logiche, ispirate a sequenze matematiche come quella di Fibonacci.

Per quanto riguarda la percezione visiva dell’opera, è importante avvicinarsi con la mente sgombra, affiancare il lavoro ad un percorso di immediata percezione visiva. L’empatia, come dicevo prima, è il vero punto di connessione: è il ponte tra ciò che ci portiamo dentro – il nostro background culturale, emozionale, familiare – e ciò che l’opera ci trasmette nel suo impatto immediato.”

Nel tuo percorso hai intrecciato esperienze con artisti di diverse provenienze. Secondo te, quale ruolo può avere oggi l’arte nella costruzione di ponti tra comunità e identità culturali diverse?

“Ho lavorato – e continuo a lavorare – con un artista algerino, Abdallah Khaled.

Tutto è iniziato nel 2002, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, quando un’agenzia pubblicitaria americana con sede a Milano ci ha contattati per realizzare un’opera grafica a quattro mani. Il lavoro è stato distribuito sia ai loro clienti sia all’ONU, all’UNESCO, e da lì è nata una bella collaborazione: abbiamo deciso di creare, ogni anno, un’opera pittorico-grafica insieme.

Questo percorso ha dato vita a una produzione particolare, parte della quale è attualmente esposta a Torino fino a febbraio 2026.

L’esperienza con Khaled ha aperto la strada ad altre collaborazioni artistiche. A Milano, per esempio, sono stato invitato come mentor di quattro artisti pakistani. Abbiamo lavorato insieme, sia guidandoli sia creando opere collettive, con l’obiettivo finale di donare quei lavori per sostenere progetti educativi a favore delle donne in Pakistan. È stato un progetto che ha avuto un impatto concreto.

In seguito, ho preso parte ad altre esperienze di lavoro collettivo, tra cui alcune collaborazioni con artisti cinesi. Durante le Olimpiadi siamo stati a Pechino, dove abbiamo realizzato diverse opere, e alcuni di questi artisti sono poi venuti anche in Veneto da noi. Abbiamo continuato a collaborare, portando avanti una relazione artistica e umana molto stimolante.”

Quanto conta per te la dimensione internazionale, considerando che hai esposto in numerose città in tutto il mondo?

“Beh, per me, e in generale per un artista, più si viene conosciuti a livello internazionale, più il pubblico diventa variegato e l’opera viene intesa e assimilata in modi diversi.

Io lavoro con alcune gallerie che partecipano a fiere internazionali, quindi ho avuto la possibilità di esporre un po’ ovunque: in America, Canada, Australia, Hong Kong, e prima ancora, quando lavoravo con la grafica, anche in Brasile e in Sudamerica diverse volte.
Inoltre, il mio lavoro è stato utilizzato anche in ambito pubblicitario, che a sua volta ha rappresentato un importante ponte di diffusione. Per esempio, la Suzuki ha usato due mie opere realizzate appositamente per la loro pubblicità. Così è successo anche in Brasile con il principale quotidiano economico.

Insomma, negli anni il pubblico si è decisamente ampliato. Le mostre restano però lo strumento più efficace: una bella esposizione all’estero, in un contesto nuovo, può attirare un pubblico completamente diverso, che percepisce l’opera in modi originali e inattesi.”

C’è stato un incontro o una mostra che è stata più significativa?

“Per esempio, due anni fa ho fatto una mostra in Montenegro che è stata molto apprezzata e ha interessato un pubblico molto variegato, proprio perché lì c’è una mescolanza culturale molto ricca.

Ho anche esposto diverse volte in Israele, dove il pubblico è altrettanto diversificato e capace di avvicinarsi al mio lavoro da prospettive differenti.

Lo stesso è successo negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna per diversi anni consecutivi, e in varie altre città europee.

Il mio lavoro è generalmente più conosciuto in Europa occidentale rispetto all’Europa orientale, dove abbiamo invece fatto meno esposizioni. Tuttavia, abbiamo avuto occasioni anche in Slovenia, Croazia e Russia. Poi i periodi e le situazioni anche politiche cambiano, per cui certe cose non si possono più fare, ma si aprono sempre nuovi percorsi interessanti.

Personalmente non mi tiro mai indietro: finché ho le forze, mi piace mantenere contatti e rapporti con pubblici nuovi e diversi. Per me, l’Ungheria rappresenta sostanzialmente un territorio ancora vergine, perché il mio lavoro ha circolato poco lì, anche se qualche interesse c’è stato in passato.
Quindi sono felice che il vostro progetto possa avvicinare il pubblico ungherese alle mie opere.”

TriBu.City è un movimento nato per valorizzare l’amicizia e rafforzare i rapporti tra Trieste e Budapest, tra l’Italia e l’Ungheria, con particolare attenzione alla cultura e alla promozione di artisti. Cosa pensi di questa iniziativa?

“Penso che sia un’iniziativa davvero ottima, altrimenti non avrei aderito alla vostra idea.
Il mio percorso culturale abbraccia l’intera Mitteleuropa, e Budapest, insieme a Vienna, è sempre stato uno dei due nuclei fondamentali di questa storia.
Perciò, riuscire ora a organizzare un’esposizione lì rappresenta per me il compimento di un lungo percorso partito da molto lontano.”

Tobia Ravà

Nato a Padova nel 1959 da una famiglia veneziana, vive e lavora tra Venezia e Mirano. Ha frequentato la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia e Urbino, e si è laureato in Semiologia delle Arti all’Università di Bologna, dove è stato allievo di Umberto Eco, Renato Barilli, Omar Calabrese e Flavio Caroli.
Nel 2004, insieme a Maria Luisa Trevisan, ha fondato PaRDeS – Laboratorio di Ricerca d’Arte Contemporanea a Mirano, uno spazio in cui artisti di diverse generazioni e provenienze si confrontano su tematiche naturalistiche e scientifiche.

L’artista espone le sue opere dal 1977, in Italia e all’estero, in prestigiose gallerie e musei. Tra le numerose sedi espositive figurano l’Olympic Fine Arts di Pechino, la Galerie Am Park di Francoforte, la Sist’Art Gallery di Venezia, la Ermanno Tedesco Gallery di Tel Aviv, Roma e Milano, il Museo Nazionale delle Belle Arti di Buenos Aires, l’HUC-JIR Museum di New York e la Biennale d’Arte di Venezia. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private in Europa, Stati Uniti, America Latina, Estremo Oriente e Australia.

Tobia Ravà è rappresentato in esclusiva in Ungheria da TriBu.City, che cura la promozione e la diffusione della sua opera nel Paese, nell’ambito del progetto di valorizzazione culturale tra Italia e Ungheria.

Alcune opere dell'artista
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